E’ un parere a caldo (caldissimo) sul primo film arrivato a noi comuni mortali da Venezia. Io arrivo adesso dal cinema, tempo di salire in macchina, fare la strada, salire in casa e aprire il portatile. Perchè è così che si fa, senza troppo ragionare. Gli spoiler pioveranno a catinelle.
C’è da dire che dal punto di vista della storia non ci sono grandissime sorprese, fatta eccezione la morte di Gwyneth Paltrow all’inizio del film, ma già ampiamente pubblicizzata nei giorni scorsi. Più che altri i sussulti sono tecnici: la cinematografia tieni in piedi una narrazione abbastanza piatta, fatta di eventi tutto sommato prevedibili. Questo non è assolutamente un punto negativo di Contagion, anzi. Il pregio più importante (anche se volatile agli occhi di molti) è la completa assenza di sensazionalizzazione; di ogni evento, di ogni storia nella storia, di ogni dettaglio della pandemia mortale. I dati ci vengono forniti, non gridati come accade nei film apocalittici che tanto sono andati di moda qualche anno fa. Non immaginiamo 28 days/weeks later in versione pandemia batterica, non pensiamo a dispegamenti militari e scene di panico. Contagion è un film estremamente personale per i personaggi, e all’opposto davvero oggettivo per lo spettatore che non fa in tempo ad affezionarsi a nessuno. Un modesto tentativo in controtendenza c’è sul personaggio di Jude Law, un blogger predicatore e complottista ipocrita che viene, per un istante, esaltato a profeta ma in silenzio, lo si può solo leggere su volantini attaccati ai muri per meno di un minuto, lo si sente solo dalla sua bocca, che non possiamo (dobbiamo) prendere sul serio sempre. Anche se, a dire il vero, nella sequenza madre del suo personaggio la regia fa di tutto per screditarlo, per concentrare l’attenzione su tutto fuorchè sulle parole che escono dalla sua bocca, riducendolo al fantoccio di un “cattivo della situazione”.
Contagion parla di una malattia che uccide in pochi giorni, che in mesi uccide milioni di persone, eppure mai la cinematografia si fa scappare tratti eccessivi che possano far apparire apocalittico (anche solo per un minuto) il film d’autore che è.
Il momento in assoluto migliore, dal nostro punto di vista, è la morte del personaggio di Kate Winslet. Te lo puoi aspettare, certo, ma non così, non in pochi secondi quando se lì seduto a credere che in realtà avrà ancora qualcosa da dire. La malattia la prende alle spalle e la riduce in fin di vita in pochi minuti cinematografici; la morte non si vede, solo gli istanti precedenti segnati da una struggente accettazione del proprio destino – rappresentata dal gesto di togliersi il cappotto che le fa da coperta per tentare di passarlo ad un altro malato che ancora sente freddo – e un primo piano impacchettato nella plastica in una fossa comune. Uno di quei momenti che ti lasciano per un buon quarto d’ora con in bocca il dolce amari di una scena che ancora riesce a sorprenderti.
Un piccolissimo meno al personaggio di Matt Damon, non convince al 100%, ma non saprei dire perchè. Forse fa parte del fenomeno di cui si parlava prima: non ci sono persone speciali, grandi eroi, tragedie mondiali sottolineate dalla tipica colonna sonora tratta da una drammatica composizione classica; allora anche i protagonisti devono essere semplici e normali.
Il finale arriva veloce, la spiegazione muta della pandemia, solo dati di fatto, niente crescendo melodrammatico.
Insomma, rimaniamo distaccati ma non insensibili. Non ci sono metafore o gradiosità, solo un film girato in modo impeccabile sullo sfondo di una tematica che in passato tutti hanno affrontato in maniera opposta.
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